DI COSA PARLA IL MIO PROGETTO AMORE 3.0
Quando ho iniziato a entrare nelle scuole per parlare di violenza, non avevo ancora un nome per questo progetto, non si chiamava Amore 3.0, non esisteva una struttura, né un indice, c’ero solo io, qualche slide, le mie letture di sociologia, psicologia, filosofia che si mescolavano alla mia esperienza sul campo e un gruppo di ragazzi che mi guardava, a volte annoiato, a volte curioso, a volte con quello sguardo che dice “questa cosa mi riguarda molto più di quanto vorrei ammettere”, ed è stato proprio in quei momenti, quando vedevo negli occhi dei giovani quella sottile oscillazione tra difesa e disponibilità, che ho capito che non bastava un incontro ogni tanto, non bastava indignarsi per la violenza di genere, dovevo provare a costruire un percorso, qualcosa che tenesse insieme comprensione, responsabilità e prevenzione.
Prima di diventare un progetto, Amore 3.0 è stato una domanda che mi ronzava dentro: ma è davvero tutto già deciso, chi agisce violenza è solo un “mostro” da isolare e punire, e i ragazzi sono solo spettatori passivi che un giorno, chissà perché, diventeranno uomini violenti oppure no, oppure c’è un margine, uno spazio da aprire, un lavoro da fare, parole da trovare per intercettare prima i copioni, le frasi, le idee sbagliate che preparano la violenza molto tempo prima che arrivi il primo schiaffo, la prima minaccia, il primo “se mi lasci ti distruggo”.
Più studiavo la violenza di genere, più mi accorgevo che non era solo un fatto di cronaca o di psicopatologia, era un intreccio tra storia, cultura, filosofia, educazione, linguaggi quotidiani, e nello stesso tempo era fatta di cose estremamente concrete, di telefoni controllati, porte sbattute, parole che umiliano, bambini che assistono e imparano in silenzio cosa significa “amore”. È da qui che è nato il desiderio di scrivere il manuale principale, “Amore 3.0 – Violenza di genere. Percorsi per autori di violenza e prevenzione a scuola, attraverso uno sguardo storico e filosofico”, perché sentivo il bisogno di fermare nero su bianco un pensiero che tenesse insieme tutto: la storia del patriarcato, la filosofia dell’alterità, la psicologia degli autori, ma anche il banco di scuola, lo smartphone in mano a un quindicenne, il corridoio di un istituto dove passa un meme che fa ridere tutti e distrugge qualcuno dentro.
Mentre scrivevo, però, mi rendevo conto che non volevo limitarmi a raccontare e a interpretare, volevo offrire strumenti, piste di lavoro, idee operative, qualcosa che un terapeuta, un educatore, un insegnante potesse davvero prendere in mano e usare, adattare, trasformare secondo il proprio stile, ma a partire da una struttura chiara. Da lì è nata la scelta di dividere tutto il progetto in due grandi binari che per me sono inseparabili: da una parte gli autori di violenza, uomini che hanno agito violenza nelle relazioni intime; dall’altra la scuola, i giovani, i loro primi amori, le prime scenate di gelosia, i primi confini violati online. Se parliamo seriamente di prevenzione, o teniamo insieme questi due mondi o continuiamo a rincorrere il problema sempre troppo tardi.
Lavorare con gli autori di violenza, per me, non è mai stato un atto di indulgenza, non è “povero lui, chissà cosa ha vissuto”, è esattamente il contrario, è prendere sul serio la responsabilità, guardarla in faccia, smettere di raccontarsi che la violenza è solo “un raptus”, un difetto momentaneo, un eccesso di rabbia, è restituire all’uomo che ha agito violenza la sua quota di libertà, che è la stessa quota su cui può costruire un cambiamento, perché se tutto è malattia, se tutto è destino, se tutto è un’etichetta che ti incolla addosso la parola “irrecuperabile”, allora non resta che la punizione, e la punizione da sola non previene niente, non restituisce sicurezza alle vittime, non protegge le donne che verranno, non interrompe il copione per chi sta crescendo e osserva.
Nel manuale principale ho voluto tracciare con calma le radici di questi copioni, guardando alla storia del patriarcato, a come per secoli il corpo e la vita delle donne sono stati pensati come proprietà, ai modelli di maschilità che abbiamo ereditato, a quella “scatola dell’uomo” dentro cui molti sono ancora imprigionati, fatta di forza obbligatoria, controllo, divieto di vulnerabilità, paura di essere ridicolizzati se mostrano fragilità, e ho voluto farlo anche attraverso la filosofia, perché parlare di violenza significa anche parlare di come guardiamo l’altro, di come lo pensiamo, se come oggetto da possedere o come soggetto da incontrare, e questo non è solo linguaggio teorico, si traduce in gesti piccolissimi, nello spazio che lasciamo all’altro di dissentire, di andar via, di non rispondere ai messaggi, di tenersi un pezzo di vita che non gira attorno a noi.
Da questo lavoro concettuale è emersa poco alla volta la necessità di un percorso strutturato per gli autori, che nel manuale ho descritto in fasi: la valutazione iniziale, la rottura della negazione, il gruppo psicoeducativo, il lavoro sull’empatia, sulla paternità, sulle relazioni sane, la fase di mantenimento e di lavoro di rete. Dentro queste fasi ho provato a mettere gli strumenti che, nella mia esperienza e nella letteratura, possono davvero aiutare un uomo a non restare fermo nella frase “io non sono così”, ma ad attraversare la vergogna, la paura del giudizio, la resistenza a chiamare violenza ciò che ha sempre chiamato “litigio” o “problema di coppia”.
Il cuore, però, non è solo la struttura, sono le domande che attraversano tutto il percorso: che cosa succede dentro un uomo che alza le mani, che urla, che minaccia, che controlla, che cosa vede, cosa sente, qual è il patto silenzioso che ha stretto con sé stesso e con il mondo per arrivare fino a quel gesto, e soprattutto, che cosa potrebbe succedere di diverso se qualcuno lo aiutasse a guardare quella scena con altri occhi, con gli occhi della donna che ha davanti, con gli occhi dei figli che assistono, con gli occhi del bambino che lui stesso è stato. Amore 3.0, nella sua parte dedicata agli autori, nasce per questo: offrire un percorso che non giustifica, ma comprende, che non assolve, ma accompagna a prendere in mano la propria responsabilità e a costruire alternative concrete, sui pensieri, sulle emozioni, sui gesti quotidiani.
L’altra metà del progetto guarda alla scuola, e qui la motivazione è ancora più forte, perché ogni volta che entro in una classe vedo che, prima di parlare di violenza, bisogna parlare di amore, di gelosia, di libertà, di confini, di consenso, di immagine di sé, di vergogna, di paura di essere esclusi, vedo ragazzi e ragazze immersi in un flusso continuo di contenuti dove il confine tra passione e possesso è spesso confuso, dove il silenzio su ciò che accade in chat è pesante quanto gli insulti che vanno a colpire qualcuno, vedo adulti che hanno paura di trovare le parole giuste, che non sanno da dove partire, e allora Amore 3.0 è anche questo, un tentativo di offrire un linguaggio, una struttura, un cammino da fare insieme.
Quando dico che il progetto si sviluppa “attraverso uno sguardo storico e filosofico” non intendo dire che vado in classe a fare lezione su Aristotele o Levinas, significa piuttosto che non tratto ciò che accade oggi come un fatto isolato, slegato dal contesto culturale in cui siamo cresciuti tutti, adulti e ragazzi, significa che riconosco come certi modi di parlare della donna, dell’uomo, dell’amore siano eredità di secoli, e allo stesso tempo credo che ogni generazione abbia la possibilità di interrompere, di correggere, di cambiare, se qualcuno le offre strumenti per leggere ciò che vive. La prevenzione, per me, è questo: non è solo fare qualche incontro “contro la violenza”, ma educare a leggere la realtà, i linguaggi, i social, le serie tv, i meme, chiedendo ai ragazzi che cosa vedono, che cosa sentono, che cosa normalizzano senza accorgersene.
Nel manuale ho cercato di descrivere un percorso scolastico che non sia moralista, non sia “lezione frontale sui comportamenti giusti”, ma un laboratorio in cui si analizzano testi, contenuti, scene, si lavora sulle emozioni, ci si allena al consenso, si ragiona sul sexting, sul revenge porn, sul controllo in chat, si prova a costruire insieme un clima di classe in cui non è più cool ridicolizzare qualcuno, in cui il silenzio di chi guarda smette di essere neutro. Amore 3.0, a scuola, è un invito a trasformare la classe in un piccolo laboratorio di democrazia affettiva, dove nessuno è perfetto, ma tutti sono chiamati a chiedersi che ruolo vogliono avere quando la violenza, sottile o esplicita, entra nelle relazioni.
La scelta di intrecciare in un unico progetto il lavoro con gli autori e la prevenzione tra i giovani nasce da una visione molto semplice: se non interveniamo sugli uomini che oggi agiscono violenza, lasciamo esposte le vittime presenti; se non lavoriamo con i ragazzi, lasciamo intatti i copioni che renderanno più probabile la violenza futura. Amore 3.0 prova a tenere insieme queste due urgenze, a dire che non possiamo limitarci a correre dietro ai fatti, a indignarci per l’ennesimo caso in prima pagina, dobbiamo imparare a stare prima, a stare dentro, a stare accanto a chi è già arrivato al gesto e a chi sta crescendo dentro una cultura che ancora mescola troppo facilmente amore e possesso.
Scrivere questo progetto è stato, per me, un modo di mettere ordine in una serie di domande che mi porto dietro da anni e allo stesso tempo un atto di responsabilità verso i contesti in cui lavoro, verso le scuole che mi aprono le porte, verso i colleghi che cercano strumenti, verso le persone che hanno subito violenza e hanno bisogno che il mondo intorno a loro non si limiti a dire “mai più”, ma costruisca le condizioni perché quel “mai più” abbia un minimo di credibilità.
Amore 3.0 non è una formula magica, non è un protocollo da applicare alla lettera, è una proposta, una trama, un percorso che può essere adattato, modificato, arricchito da chi lo userà, ma nasce con una intenzione precisa: offrire, a chi crede che la violenza si possa e si debba prevenire, una mappa per non perdersi, per non arrendersi al cinismo del “tanto non cambierà mai niente”, per non rifugiarsi solo nella punizione o solo nella retorica.
Se deciderai di esplorarlo, di portarlo nel tuo lavoro, nella tua scuola, nel tuo studio, nelle tue relazioni professionali, per me sarà già un pezzo di quel cambiamento che sogno quando entro in una classe e dico la parola “amore” davanti a un gruppo di ragazzi, sapendo che da come impariamo a raccontarla, a pensarla, a viverla, dipende anche quanta violenza potremo evitare domani.
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