le 4 fasi del cambiamento reale, per autori di violenza

Pubblicato il 10 dicembre 2025 alle ore 09:43

Introduzione al progetto

 

    Quando ho iniziato a studiare la violenza di genere, mi sono accorto abbastanza presto che c’era una grande assente in molte narrazioni pubbliche: la figura dell’uomo che quella violenza la agisce. Di lui si parla spesso solo in due modi, entrambi schiaccianti, o come mostro irrecuperabile o come semplice “caso di cronaca”, una macchia nera sullo sfondo di una statistica. Io sentivo che in quella semplificazione si perdeva qualcosa di fondamentale, non perché volessi difendere l’autore, ma perché mi era chiaro che se non entriamo dentro la mente, le emozioni, le storie di questi uomini, non spezzeremo mai davvero il copione che si ripete.

Da qui è nata la parte del progetto Amore 3.0 dedicata agli autori di violenza, quella che nel manuale ho chiamato le quattro fasi del cambiamento reale. Reale è una parola a cui tengo molto, perché indica un cambiamento che non si limita a qualche frase imparata, a qualche buon proposito, a un po’ di contenimento momentaneo, ma tocca davvero il modo in cui un uomo pensa, sente, interpreta la relazione, gestisce la frustrazione, legge la libertà dell’altro.

Quando parlo di autori di violenza, non penso a un blocco indistinto. Ci sono uomini molto diversi tra loro, per storia, per livello culturale, per vissuti, per modalità con cui la violenza si manifesta. Eppure, per quanto variegati, ci sono elementi che tornano, nodi che ritrovo in molti racconti, frasi che sembrano cambiare volto ma dicono sempre la stessa cosa, “non sono così”, “è stata la situazione”, “è stata lei a portarmi a quel punto”.

Il cuore del percorso Amore 3.0 per gli autori è proprio questo: accompagnare l’uomo a passare da quella posizione difensiva, in cui la responsabilità è sempre fuori, a uno sguardo più onesto su sé stesso, che fa male, che brucia, che a volte viene rifiutato, ma che è l’unico punto da cui può davvero nascere qualcosa di diverso.

  1. Fase uno: quando tutto inizia con un “non sono un violento”

La prima fase del percorso è quella che, nel manuale, ho chiamato valutazione e rottura della negazione. È il momento in cui l’uomo entra in contatto con il progetto, spesso non per propria iniziativa. Quasi mai arriva dicendo “ho un problema e voglio lavorarci”, di solito c’è una denuncia, un ammonimento, una separazione, la paura di perdere i figli, un avvocato che consiglia di intraprendere un percorso, una compagna che mette un ultimatum.

L’ingresso, quindi, è quasi sempre accompagnato da una frase che in mille forme dice la stessa cosa, “io non sono un violento”. A volte viene pronunciata con rabbia, altre con stanchezza, altre ancora con un filo di vergogna. È una frase che non prendo mai alla leggera, perché dentro quella negazione c’è la difesa della propria identità, l’incapacità di reggere l’idea di essere “uno di quelli”, ma c’è anche già una crepa, perché se sei seduto lì, davanti a me, se stai partecipando a un colloquio, vuol dire che una parte di te sa che qualcosa non va.

Nella fase iniziale, il mio compito non è etichettare, ma fare luce. Si lavora su tre assi: la storia personale, la relazione di coppia, l’episodio o gli episodi violenti. Non è un esercizio di curiosità biografica, è un modo per capire su quale terreno è cresciuta la maschilità di quell’uomo, quali modelli ha visto da bambino, che cosa ha imparato sui conflitti, su come si gestiscono le emozioni, su cosa significa “essere uomo” e “essere donna” dentro una relazione.

Quando ricostruiamo l’episodio violento, lo facciamo piano, quasi fotogramma per fotogramma, che cosa è successo prima, quali parole sono state dette, dov’era il corpo, che cosa sentiva addosso, qual è stato il pensiero immediatamente precedente al gesto, e pian piano si vede che quella che l’uomo chiamava “perdita di controllo” non è un lampo improvviso, ma una sequenza, una salita di tensione in cui, da qualche parte, c’era uno spazio in cui avrebbe potuto scegliere altro, respirare, allontanarsi, chiedere una pausa.

La valutazione serve anche a misurare il rischio, a capire se ci sono segnali di escalation, stalking, uso di sostanze, accesso ad armi, isolamento della partner, tutto quello che ha a che fare con la sicurezza delle persone coinvolte. In questo senso, la fase uno non è solo un avvio di percorso, è già un atto di tutela verso la vittima, verso eventuali figli, verso l’intero contesto.

Parallelamente, in questa fase si costruisce un contratto terapeutico, un patto chiaro in cui ci diciamo dove vogliamo andare, che cosa ci impegniamo a fare, quali sono i confini del lavoro, quali sono le regole minime per lavorare in modo serio. Per molti uomini è la prima volta che si trovano davanti a un impegno verso sé stessi che non nasce dal timore di una sanzione, ma da un’idea di crescita, anche se ancora non del tutto sentita.

La rottura della negazione non avviene in un giorno, non è un “adesso ho capito tutto”, spesso inizia da piccole frasi “forse lì ho esagerato”, “vista così non è come la raccontavo io”, “mi fa effetto rivedere quella scena con altri occhi”. Io so che in quelle brecce c’è già un seme di cambiamento.

  1. Fase due: il gruppo come specchio e palestra

La seconda fase è quella del gruppo psicoeducativo, ed è uno dei luoghi più delicati e potenti del percorso. Mettere insieme uomini che hanno agito violenza non è semplice, il rischio di collusione, di minimizzazione reciproca, di alleanza contro “il sistema” è reale, ma è proprio dentro quella dinamica che si può lavorare, se il gruppo viene guidato con chiarezza e fermezza.

Nel gruppo si lavora su alcuni moduli fondamentali: le diverse forme di violenza (fisica, psicologica, economica, sessuale, digitale), le credenze di genere, i miti sulla maschilità e sulla coppia, le emozioni che spesso stanno sotto la violenza, la vergogna, la gelosia, la frustrazione, la paura dell’abbandono, la rabbia, l’idea di “perdita di potere”.

Il gruppo ha una funzione che nessun colloquio individuale potrà mai avere del tutto, perché è specchio, è confronto, è limite. Quando un uomo si sente dire da un suo pari “lo stesso discorso che stai facendo tu lo facevo anch’io, finché non ho capito che era un modo per non vedere la mia responsabilità”, quella frase passa in modo diverso da quando arriva dal terapeuta.

Nel gruppo si lavora sulla lingua, su come gli uomini raccontano le cose, sulle espressioni “siamo arrivati alle mani”, “è degenerata la situazione”, “mi ha tirato fuori il peggio”, e si prova a rimettere i verbi al loro posto, ho spinto, ho urlato, ho minacciato, ho stretto il braccio, ho lanciato l’oggetto, ho controllato il telefono. È un lavoro di restituzione di agentività, perché finché la violenza appare come qualcosa che accade, non come qualcosa che si fa, restiamo immobili.

Il gruppo è anche palestra emotiva, un luogo in cui molti uomini, forse per la prima volta, nominano emozioni che non sanno gestire e scoprono di non essere gli unici a vivere quella bomba interna quando si sentono messi in discussione, non all’altezza, esclusi, traditi. In questo senso, ogni incontro è un allenamento a reggere la tensione senza trasformarla automaticamente in attacco o in ritiro punitivo.

In questa fase, spesso, la motivazione al cambiamento, che all’inizio era fragile, comincia a consolidarsi, perché gli uomini iniziano a vedere non solo ciò che hanno fatto, ma anche ciò che potrebbero diventare se imparassero a gestire le emozioni e i conflitti in modo diverso. Alcuni scoprono che è possibile sentirsi più forti non quando controllano, ma quando riescono a fermarsi prima, quando scelgono di non passare quel confine.

  1. Fase tre: imparare a guardare con gli occhi dell’altro

La terza fase del progetto è quella che tocca il nervo più scoperto, quello dell’empatia, dell’identità maschile e delle relazioni sane. Finché un uomo resta chiuso nel proprio punto di vista, nella convinzione che “in fondo non è accaduto niente di così grave”, il cambiamento rischia di essere superficiale.

Qui si lavora in modo più mirato sul punto di vista della donna, ma anche dei figli, di chi ha assistito, di chi ha vissuto di riflesso la violenza. Si esplorano le conseguenze a breve e a lungo termine, la paura, l’ipercontrollo, il camminare sulle uova, quel sentimento di costante allerta che molte vittime descrivono. Spesso è un passaggio scioccante per l’autore, perché si accorge che l’episodio che lui continua a minimizzare ha lasciato ferite profonde dall’altra parte.

Una parte importante di questa fase riguarda la violenza assistita, la prospettiva dei bambini che stanno in quella casa, che non vengono toccati direttamente, ma respirano tensione, urla, insulti, porte sbattute, corpi che si irrigidiscono. Quando un padre vede la scena con gli occhi del figlio, non sempre è pronto a reggerla, a volte fugge, cerca di tornare alle sue giustificazioni, ma se resta, se trova il coraggio di attraversarla, lì si apre uno dei varchi più profondi verso un cambiamento autentico.

Parallelamente si lavora sulla domanda “che tipo di uomo voglio essere”, fuori dai modelli rigidi di maschilità che molti hanno interiorizzato. Significa mettere in discussione l’idea che un uomo “vero” non deve mostrare fragilità, che deve avere sempre l’ultima parola, che non può sopportare un rifiuto, che deve controllare la partner per sentirsi sicuro.

Si lavora sulle relazioni sane, su come può essere un conflitto che non diventa distruzione, su come si chiede scusa in modo non manipolatorio, su come si rispettano i confini dell’altro anche quando fanno paura, su come ci si assume la responsabilità del proprio passato senza usarlo come arma o come scudo.

In questa fase io vedo spesso nascere le domande più dolorose, ma anche più feconde, “che cosa ho insegnato fino ad oggi a chi vive con me”, “che cosa voglio che rimanga di me nelle loro memorie”, “che padre voglio essere, che uomo voglio diventare”. Non tutti arrivano allo stesso punto, non tutti riescono a sostenere fino in fondo questo livello di consapevolezza, ma quando accade, si percepisce qualcosa che cambia davvero nelle radici.

  1. Fase quattro: il difficile lavoro del “dopo”

La quarta fase è quella del mantenimento, del follow-up e del lavoro di rete, e spesso è meno affascinante sulla carta, ma decisiva nella realtà. Perché è relativamente più facile cambiare qualcosa mentre si è dentro a un percorso strutturato, con incontri regolari, con un gruppo, con un terapeuta, con un’attenzione costante. È molto più difficile non tornare alle vecchie strade quando il percorso formale finisce, quando la vita riprende il suo ritmo, quando le tensioni familiari, lavorative, personali tornano a bussare alla porta.

In questa fase si lavora su come prevenire le ricadute, su come riconoscere i segnali precoci, su quali strategie concrete mettere in atto quando ci si accorge che la tensione sta salendo, su chi coinvolgere se ci si sente di nuovo in difficoltà, su come non vivere le eventuali cadute come la prova che “non cambierò mai”, ma come segnali da prendere sul serio, chiedendo aiuto in tempi rapidi.

Si mantengono, quando possibile, gruppi di mantenimento, spazi periodici in cui chi ha terminato il percorso torna a confrontarsi, a fare il punto, a rivedere alcune dinamiche. Ci si collega con i servizi del territorio, si cura il rapporto con i centri antiviolenza, con le forze dell’ordine, con i servizi sociali, perché il cambiamento dell’autore deve sempre essere letto dentro una rete di tutela della vittima, non in modo isolato.

Per me, questa fase ha anche un valore simbolico, perché è il luogo in cui si misura se la responsabilità che l’uomo ha iniziato a prendersi nei primi colloqui è diventata parte della sua identità. Un autore che chiama prima di esplodere, che riconosce di avere bisogno di sostegno, che ammette la fatica, che si mette in discussione quando vede riemergere vecchi schemi, è un uomo che sta usando la libertà in modo diverso, non perfetto, non garantito, ma più consapevole.

Perché credo in queste quattro fasi

Potrei riassumere così il senso delle quattro fasi del cambiamento reale nel progetto Amore 3.0: aiutare un uomo a passare dal considerarsi vittima delle circostanze, della partner, del proprio carattere, a riconoscersi come soggetto delle proprie azioni, capace di scelte nuove, anche quando fa paura ammettere ciò che è stato.

Non ho mai pensato che tutti possano cambiare allo stesso modo, non credo alle promesse facili, non credo alle “riabilitazioni lampo”. Ma so, dalle letture e dalla pratica, che per una parte di uomini questo lavoro ha senso, riduce il rischio di recidiva, aumenta la sicurezza per le donne e i figli, sposta qualcosa nel modo in cui pensiamo la maschilità e le relazioni.

Credo che continuare a parlare solo di punizione, senza investire su percorsi seri per gli autori, sia come cercare di svuotare il mare con un secchio. La punizione ha una sua funzione, non la nego, ma da sola non cambia i copioni che si tramandano. Le quattro fasi di Amore 3.0 vogliono essere una proposta concreta per chi, nei centri, nei servizi, negli studi, nei tribunali sensibili a questi temi, vuole provare a lavorare anche su quel fronte dimenticato, quello dell’uomo che ha agito violenza.

Ogni volta che un autore, alla fine del percorso, riesce a dire “non posso cancellare quello che ho fatto, ma oggi ho strumenti per non rifarlo”, io sento che quel lavoro ha avuto un senso, non solo per lui, ma per le donne che incontrerà, per i figli che crescerà, per i ragazzi che domani decideranno che tipo di uomini diventare guardando il modello maschile che hanno avuto davanti.

Amore 3.0, nella parte dedicata agli autori, nasce per loro, ma anche per chi è stato ferito dalle loro azioni, con la consapevolezza che ogni passo di cambiamento reale, per quanto piccolo, è uno spazio di violenza in meno nel mondo che stiamo costruendo.


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