Introduzione alle 4 fasi a Scuola
Quando entro in una scuola con il progetto Amore 3.0 sento sempre la stessa cosa, una specie di delicatezza addosso, come se stessi entrando in un luogo dove il futuro è ancora aperto, non deciso, non definito, dove le relazioni, l’idea di amore, il modo di stare insieme, possono ancora prendere strade molto diverse. Sono convinto che se vogliamo davvero prevenire la violenza di genere dobbiamo cominciare da qui, dai corridoi, dalle classi, dalle chat di classe, dalle prime storie d’amore che iniziano tra un banco e l’altro, perché è lì che si costruiscono le mappe affettive con cui ragazzi e ragazze un giorno entreranno in relazioni più serie, è lì che imparano, spesso senza accorgersene, a chiamare amore cose che amore non sono, controllo, gelosia, umiliazione, paura di dire no.
Il progetto Amore 3.0 a scuola nasce proprio da questa consapevolezza, dall’idea che la scuola non sia solo il luogo dove si studia storia, matematica, italiano, ma uno spazio dove si impara a stare al mondo, dove si possono allenare muscoli emotivi, etici, relazionali che saranno decisivi per prevenire quelle forme di violenza che troppo spesso scopriamo solo quando è già troppo tardi.
Nel manuale ho deciso di organizzare il percorso scolastico in quattro fasi, non perché la vita segua passo passo i nostri schemi, ma perché gli insegnanti, gli educatori, gli psicologi scolastici abbiano una mappa chiara, un filo da seguire e da adattare al proprio contesto. Queste quattro fasi sono come quattro stanze, ognuna con una domanda centrale, decostruzione culturale, emozioni, consenso e digitale, peer education, e tutte insieme provano a rispondere alla domanda più grande, come aiutare i ragazzi a costruire relazioni che non confondano la violenza con l’amore
Fase 1Imparare a leggere ciò che guardano ogni giorno
La prima fase è quella della decostruzione culturale, ed è forse quella che sorprende di più i ragazzi, perché non partiamo da una lezione frontale su che cos’è la violenza, partiamo da quello che loro già guardano, ascoltano, condividono ogni giorno, canzoni, serie, film, meme, video su TikTok e Instagram, chat.
La loro vera scuola sentimentale è lì, nelle playlist, nelle storie salvate, nei dialoghi delle serie che sanno a memoria. Se voglio parlare di relazioni devo avere il coraggio di sedermi accanto a loro e guardare con loro lo stesso schermo, non per giudicarlo dall’alto ma per rallentarlo insieme, per fare domande che di solito non si fanno, chi decide in questa scena, chi comanda, chi si adatta sempre, chi chiede scusa anche quando non ha fatto nulla, come viene raccontata la gelosia, che posto ha il no.
Quando ci fermiamo su una canzone che tutti conoscono e iniziamo a chiederci che cosa succede in quella storia, ci accorgiamo che dietro parole all’apparenza romantiche si nascondono spesso copioni pericolosi, senza di te non sono niente, se guardi un altro mi manchi di rispetto, se mi lasci mi rovini la vita, ed è qui che la prevenzione comincia, non quando spieghiamo le definizioni, ma quando un ragazzo si accorge che ciò che canta ogni giorno normalizza l’idea che l’altro sia una proprietà, un oggetto da trattenere, un pezzo di sé che non può mai allontanarsi.
In questa fase lavoriamo molto anche sulla gelosia romantica, quella convinzione che se non sei geloso non tieni davvero a me. Non dico mai ai ragazzi che non devono provare gelosia, sarebbe ridicolo, a quell’età la gelosia brucia, è reale, quello che proviamo a fare è aiutarli a distinguere tra ciò che sentono e ciò che fanno con ciò che sentono. Posso provare gelosia, ma questo non mi dà il diritto di controllare il telefono, decidere come l’altro si veste, interrogare chi segue sui social, chiedere di rinunciare a amici e spazi personali. La domanda chiave della fase uno è semplice e rivoluzionaria, che cosa succede se confondiamo la gelosia con l’amore, chi perde libertà, chi ha paura, chi si rimpicciolisce. Quando una classe comincia a vedere questo, quando qualcuno dice per la prima volta io questa cosa la faccio, mi rendo conto che è pesante, allora so che la decostruzione culturale sta funzionando, perché il codice non è più solo subìto, comincia a essere letto.
Fase 2 Dare un nome a quello che si muove dentro
La seconda fase è la palestra delle emozioni, e qui abbandoniamo un po’ gli schermi per entrare nel corpo, nella testa, nella pancia dei ragazzi. La violenza non nasce solo dalle idee sbagliate sull’amore, nasce anche da emozioni fortissime che non trovano parole, non trovano strade, e allora esplodono in forme distruttive, per sé e per gli altri.
Quando chiedo a una classe quali sono le emozioni più difficili da gestire nelle relazioni, le risposte ruotano quasi sempre attorno a tre parole, rifiuto, frustrazione, gelosia. Il rifiuto non è solo un no, è una piccola frana dentro, non ti voglio, non mi piaci, non mi interessi più, e se non ho strumenti per reggere quel dolore, posso trasformarlo in disprezzo, insulti, vendetta, oppure rivolgerlo contro di me, non valgo niente, non servo a nulla.
La frustrazione è quel senso di ingiustizia quando le cose non vanno come vorrei, quando l’altro non risponde come mi aspetto, quando il mondo non obbedisce ai miei desideri, e lì la tentazione è cercare almeno un luogo dove comandare davvero, e quel luogo rischia di diventare la relazione, almeno qui decido io, almeno qui qualcuno fa quello che dico.
La gelosia, poi, è un condensato di tutte queste cose, paura di essere sostituiti, senso di inadeguatezza, terrore di non contare più, e se non imparo a riconoscere quei movimenti interni, rischia di trasformarsi in una gabbia fatta di controlli, interrogatori, richieste di prove d’amore sempre più estreme.
Nella palestra delle emozioni non diciamo ai ragazzi di controllarsi e basta, proviamo a dare loro strumenti pratici per capire dove sono, dentro di sé, in ogni momento. Usiamo il semaforo emotivo, che li aiuta a distinguere tra un verde in cui riescono ancora a parlare e scegliere, un giallo in cui la tensione sale ma c’è spazio per fermarsi, e un rosso in cui la priorità non è aver ragione ma non fare danni, e li invitiamo a chiedersi ogni volta di che colore sono, prima di scrivere, chiamare, esplodere.
Lavoriamo con mappe emotive per capire dove sentono la rabbia, la paura, la vergogna nel corpo, quali pensieri portano con sé, e usiamo il journaling, brevi scritture guidate, per dare voce a cose che ad alta voce non riuscirebbero a dire. Tutto questo non serve a rendere i ragazzi impeccabili, serve a spostare di un millimetro il rapporto con le loro emozioni, da sono schiavo di ciò che provo a posso osservare ciò che provo, posso decidere cosa farci.
A questa fase aggiungo sempre momenti di role playing, piccoli scene di vita reale, una chat, una richiesta di password, un no improvviso, un like che punge, che loro recitano come accade davvero, e poi riscrivono provando modalità diverse, più oneste, meno violente. È una palestra nel senso letterale della parola, si prova, si sbaglia, si riprova, e pian piano, senza proclami, si scopre che c’è più di un modo per gestire quella botta allo stomaco che arriva quando le cose non vanno come vuoi.
Fase 3Consenso e mondo digitale, dove oggi si gioca una parte enorme delle relazioni
La terza fase entra nel cuore di uno dei temi più delicati, consenso e confini digitali. Qui non basta dire ai ragazzi di stare attenti, bisogna aiutarli a capire che cos’è davvero un sì sano, che cosa significa libertà, perché una foto intima non è mai solo una foto, perché una minaccia può essere violenza anche senza arrivare all’atto.
Introduco quasi sempre il concetto di consenso entusiasta, che per loro è una piccola rivoluzione, perché molti arrivano con l’idea che il consenso sia semplicemente l’assenza di un no esplicito, se non protesti vuol dire che ti va bene. Ci fermiamo su frasi come dai, se mi ami lo fai, se non me la mandi vuol dire che non ti fidi, se non vieni da me stasera è perché non ci tieni, e chiedo, qui l’altra persona è davvero libera, è serena, è presente, potrebbe dire no senza paura. Quando capiscono che un sì nato dalla paura non è un vero sì, che il consenso non è un sì strappato con il senso di colpa, allora qualcosa cambia, anche nel modo in cui rileggono situazioni che hanno vissuto o visto. Parliamo poi di red flags e green flags, i segnali rossi e verdi delle relazioni, lui vuole sempre sapere dove sono, si arrabbia se non rispondo subito, mi fa sentire in colpa se dico no, sono tutti segnali che la relazione sta deviando verso il controllo, mentre rispetto dei tempi, ascolto, possibilità di dissentire senza essere puniti, diventano segnali verdi da imparare a riconoscere e cercare.
Non possiamo evitare il tema del sexting e del revenge porn, lo affrontiamo con rispetto, senza moralismi, parlando di libertà, rischio e responsabilità, libertà di non inviare mai niente, rischio che ogni contenuto digitale esca dal nostro controllo, responsabilità di chi riceve e ha in mano la fiducia di un’altra persona. Cerchiamo di far capire che la violenza digitale non inizia solo quando una foto circola, inizia quando la usi come leva, come minaccia, come strumento per tenere qualcuno legato a te.
Chiudiamo questa fase collegandola a qualcosa che spesso i ragazzi considerano distante, educazione civica, perché parlare di consenso, di confini digitali, di reati online, è anche parlare di cittadinanza, di diritti, di doveri, non solo di morale privata. L’idea è semplice, come imparano le regole per non farsi male in strada, hanno diritto a imparare le regole minime per non farsi male nelle relazioni e in rete.
Fase 4 Quando i ragazzi diventano parte della soluzione
La quarta fase è quella che amo di più, perché qui entra in gioco la peer education, l’educazione tra pari, e il baricentro si sposta ancora di più, non siamo più noi adulti a guidare tutto, sono loro che cominciano a parlare tra loro con parole nuove, con uno sguardo più lucido su ciò che vedono.
Parto sempre da una domanda molto onesta, chi ascoltate davvero quando avete un problema, e le risposte, quasi sempre, vanno in una direzione chiara, gli amici, il gruppo, i pari. Questo significa che i ragazzi hanno un potere di influenza enorme gli uni sugli altri, un commento in corridoio, una battuta, un consiglio, possono spingere verso il rischio o verso la protezione.
In questa fase cerchiamo di trasformare questo potere in qualcosa di generativo, non chiediamo loro di fare i piccoli psicologi, chiediamo di notare le situazioni e di scegliere da che parte stare, ridere quando qualcuno controlla la ragazza facendo finta che sia normale, oppure spostare il tono con una frase che fa pensare, stare zitti quando gira un video umiliante, oppure dire io questa cosa non la inoltro.
Uno degli strumenti più concreti è il Manifesto di classe, un patto relazionale scritto insieme, che raccoglie quello che hanno scoperto nelle fasi precedenti, qui non giriamo foto senza consenso, qui non usiamo le chat per umiliare, qui se qualcuno dice no non gli facciamo il processo, frasi semplici, ma nate da loro, non imposte dall’alto. Vederli discutere su ogni parola, cercare una forma che sentono propria, firmarla, appenderla in aula, è già educazione alla responsabilità.
Accanto al Manifesto, chiedo spesso di creare prodotti multimediali, piccoli video, reel, podcast, poster digitali, in cui raccontano con il loro linguaggio che cosa hanno capito sulle relazioni, sulle red flags, sul consenso. In quel momento il progetto diventa davvero loro, non è più solo un percorso fatto in classe, è un messaggio che può circolare tra i pari, che può arrivare a chi non ha partecipato agli incontri, che parla la lingua dei ragazzi, veloce, visiva, diretta.
La cosa più importante, però, è il clima di classe che pian piano si costruisce, un clima in cui certe frasi non passano più come prima, in cui ridere di un video umiliante non è più così automatico, in cui almeno una persona dice basta, questa cosa non mi piace, un clima in cui chi è stato esposto o ferito non viene lasciato solo. Non è un paradiso, non è un mondo senza conflitti, è un luogo in cui la violenza smette di essere invisibile, inevitabile, normale.
Quando penso alle quattro fasi del progetto Amore 3.0 a scuola, le vedo un po’ così, come quattro cerchi concentrici, dall’esterno all’interno e di nuovo verso l’esterno. Si parte da ciò che i ragazzi vedono, si entra in ciò che provano, si attraversa ciò che scelgono di fare nei loro corpi e sui loro schermi, si arriva a ciò che possono costruire insieme come gruppo.
La scuola, in tutto questo, diventa davvero un luogo privilegiato, non perché abbia tutte le risposte, ma perché è uno dei pochi posti in cui i ragazzi stanno insieme, tutti i giorni, con adulti che, se accompagnati, possono diventare presenze significative, capaci di vedere, nominare, proteggere, proporre strade nuove.
Amore 3.0, nelle sue quattro fasi scolastiche, è il tentativo di mettere ordine in questo lavoro, di dare strumenti, parole, idee, ma soprattutto di dire una cosa che per me è fondamentale, i ragazzi non sono solo il problema da prevenire, sono parte della soluzione, e se li coinvolgiamo davvero, se camminiamo accanto a loro, possono diventare i primi alleati nella costruzione di relazioni in cui la violenza non venga più scambiata per amore.
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